Luca D. Majer
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Su caffè storici e meno

 

Sulla questione Starbucks in Italia ne avevo già parlato anni fa su Comunicaffè (l'arrivo lo vedevo come ineluttabile) ma i pareri che ho sinora letto hanno trascurato di sottolineare la cosa principale. Cioè che Starbucks non è una catena di caffetterie. Il caffè è solo il prodotto attorno a cui ruota una certa narrativa della brand.

Già negli anni '90 visitare Starbucks aveva cessato di essere hip, negli USA, e i connoisseurs del caffè migravano altrove, piuttosto con gente come Peet's o le torrefazioni che restavano piccole e macinavano gloriose origini lungo tutta la West Coast. Ma alla massa principale del mercato statunitense Starbucks assicurava un biglietto round-trip per l'Europa, verso questa atmosfera cosy e bohemienne, coi divani al posto dei banchi dei diners, e queste bevande esotiche, mai sentite prima (l'espresso "come lo conosciamo noi" conta poco: meno del 10% delle vendite, in USA.) 

Una trasposizione post-industriale del Caffè, inteso come luogo pubblico, che ri-diventa quello che era nel XVIII secolo: luogo di riunione per start-ups, dove fare riunioni e consultare la posta, e fare chic, anche perchè le locations, spesso, sono ottimali. Per questo i prezzi sono ragionevoli - mica competono con un bar! In India, se prendo ad esempio Cafè CoffeeDay, la prima catena di Coffee-Houses indiana, là il coffeeshop è un luogo dove andare su Internet o incontrare ragazze e amici senza alcool e senza sconvenienza. E' un viaggio nel futuro. Una catena di coffeeshop ben ispirata, insomma, è naturalmente portata a vendere qualcosa oltre il caffè, che gli economisti chiamano un servizio, i markettari un'esperienza e che a noi significa accettare un costo che è il doppio o il triplo di un simile prodotto altrove.

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Perciò non vi è alcun dubbio che Starbucks farà bene in Italia, come fece bene McDonalds aprendo in piazza di Spagna, perché come McDo (col quale intrattiene più similarità che differenze) Starbucks rappresenta uno stacco dalla tradizione e un viaggio a NY al massimo con 5 Euro a testa. E non farà così male alla nostra tradizione, limitandosi all'inizio ad attaccarne i fianchi sguarniti - concentrandosi inizialmente nelle città d'arte e turismo, nei luoghi di passaggio internazionale.

Dando per scontato il successo, quello che ritengo maggiormente di questa vicenda è, dal punto di vista strategico del mercato del caffè, la consacrazione italica dell'affermazione della brand con appeal "da marciapiede". La brand che non conosci attraverso la pubblicità e l'immagine sugli scaffali del supermercato, bensì attraverso una promozione (a pagamento) della sua esperienza, con il vantaggio sinestetico dato dal luogo pubblico. E' un cambiamento che riporta indietro, al Floriàn e ai caffè della Rivoluzione Francese, adattandone (o stravolgendone, secondo alcuni) le peculiarità: da azienda familiare a quotata in borsa, da estensione rionale a estensione globale, da clientela esclusiva a clientela di massa etc etc.

Un prodotto emotivamente aspirazionale che consente concentrazioni di mercato clamorose, grazie anche a capacità finanziarie che hanno consentito la rapida copertura del territorio e progetti aggressivi di crescita. Come certamente è quello di Starbucks in Italia.

 

25 - 3 - 2016