Luca D. Majer
Caffè  Musica  ed altro  
 

Un approfondimento dell’intervento all’Assemblea dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano I.N.E.I. del 18 settembre 2009, ad Albissola, SV.

Bengaluru (Karnataka) India

 

 

ESISTE una bella espressione colloquiale francese che per qualche motivo ci siamo dimenticati di chiedere in prestito ai nostri fratelli transalpini e tradurre in italiano: Reculer pour mieux sauter. A volte bisogna fare così: indietreggiare per meglio saltare; allontanarsi un istante dall’attualità per meglio superarla. Così - parlando di tecnologia e del domani del caffè - è utile guardarci dietro e apprendere qualcosa dai nostri passati per poi applicarla al futuro delle nostre attività. E facendolo, la prima cosa che salta agli occhi è da quanto poco si parli di caffè.

La storia del caffè, come la conosciamo oggi, è l’ultimo paio di millimetri di una storia lunga un metro: cioè quella di una pianta che (parlando di coffea Arabica) sembra essere nata attorno ad un milione di anni fa, come una variazione genetica della Canephora.

Assai più breve è poi la storia del caffè, se ci concentriamo al suo uso in Occidente. 400 anni son passati dal surrealistico episodio della benedizione del caffè da parte di Clemente VIII, trecento anni dalle prime quotazioni in Borsa (ad Amsterdam) di un caffè che non fosse yemenita (quello della Batavia olandese – l’indonesiano), poco più di duecento anni da quel tragico giorno al Café de Foy dove Desmoulins iniziò ad incitare gli animi dei rivoluzionari francesi, per finire con la testa mozzata poco dopo - e la certezza di avere sedimentato l’uso dei Cafè come centro nevralgico dell’opinione pubblica.

Parlando di tecnologia del caffè espresso, poi, i tempi sono ancora più brevi: da poco abbiamo celebrato il primo secolo dall’invenzione di Bezzera, e se volessimo fare i filologhi Angelo Moriondo (poco prima) e De Loysiel (attorno al 1860) avevano messo pressione (assai poca) al caffè già nel XIX secolo: poco più di un secolo, tutto sommato. Se guardiamo le date che segnano gli avanzamenti nello studio degli aromi del caffè, le date sono ancora più prossime, seguendo l’invenzione del gas cromatografo: infatti s’inizia alla fine degli anni 1950 a studiar aromi e la grande crescita avviene nemmeno 40 anni fa, tra il ’68 e il ’78 – come dire l’altro ieri.

 

LEADER TECNOLOGICI  o di MARKETING?

(ricerca Internet sul DataBase mondiale dello European Patent Office – 17 settembre 2009)

Numero brevetti nel Data-Base E.P.O. (Azienda)

> 100.000 (PHILIPS, SAMSUNG, SONY)
80.578 (SHELL)
44.530 (MICROSOFT)
19.050 (NESTLE’)
14.389 (FIAT)
7.949 (MERCEDES)
7.242 (APPLE)
2.150 (GOOGLE)
507 (AMAZON)

Passare attraverso la protezione industriale delle idee (il “brevetto”) è il cammino più prudente quando si vogliono sviluppare nuove soluzioni tecniche: così si proteggono gli investimenti in ricerca & sviluppo evitando che chi investe milioni di Euro trovi soluzioni impensate e poi terzi, trovata la porta spalancata, non fatichino come il primo a trovarla e poi ad aprirla, bensì la varchino tranquillamente, alla faccia del primo vero inventore.

Da un altro punto di vista, d’altronde, la protezione brevettuale è di fatto una limitazione legale della concorrenza. Così, posti pesi economici disuguali (pure assumendo pari capacità inventive) essa tende a perpetuare lo status quo o, più probabilmente ancora, a concentrare ancora di più nelle mani degli oligopolisti le leve del mercato, sottraendo possibilità ai piccoli attori.

Nel micro-mondo del caffè si osserva senza difficoltà che, nonostante sia noto come la “bevanda più popolare al mondo” l’avanzamento tecnologico non è stato al pari della sua popolarità. Paradossalmente è rimasto con una tecnologia in fase relativamente fluida: che è – in termini di business -  quasi criminale, in un settore peraltro relativamente statico. Forse, dico io, mancano le idee. Forse c’era stata una situazione di mercato troppo quiescente, per potersi industriare.

Quando però guardiamo il numero di brevetti esistenti sul tema, sembrerebbe il contrario: negli ultimi trent’anni è stata sviluppata una quantità formidabile di protezioni intellettuali a copertura di ritrovati tecnici inerenti il caffè. Eppure, quel’è la novità di queste centinaia di invenzioni rispetto – per dire – a quanto seppe inventare Cremonese nel 1938, poi perfezionato nel 1946 da quel barista milanese sui generis che rispondeva al nome di Achille Gaggia?

Stranamente, o logicamente forse, sono stati i sistemi chiusi come Nespresso prima (ed in una certa misura) e poi, soprattutto, l’Hyper-espresso di Illy e la MaxEx della Tuttoespresso, tra 2004 e 2005,  a dimostrare che si può fornire, in maniera ripetitiva, un caffè espresso di ottima qualità. E - negli ultimi due casi-  anche, con una quantità di estratti elevata, superiore a quella normalmente ottenuta dai metodi tradizionali. Il che implica profili organolettici più “edonici” per usare una parola comune ai lettori de “L’Assaggio”.

 

I BREVETTI NEL CAFFE’

(ricerca Internet sul DataBase mondiale dello European Patent Office – 17 settembre 2009)

TOTALE BREVETTI CON LE PAROLE “COFFEE” o “CAPSULES” o “CONTAINER” NELL’ "ABSTRACT" (AZIENDA)

9923 (KRAFT)
5021 (NESTEC)
230 (UCC)
463 (DOUWE EGBERTS)
297 (ILLY)
125 (KEURIG)
118 (TCHIBO)
100 (TUTTOESPRESSO)
56 (LAVAZZA)

 

LA CATENA DEL VALORE DEL CAFFE’

Se colleghiamo queste osservazioni statistiche tratte dal Database EPO alle considerazioni che, da un’abbondante decina di anni a questa parte, gli economisti hanno fatto in merito alla globalizzazione con rispetto alla “catena del valore”, ci rendiamo conto come – giorno dopo giorno – il mercato del caffè che noi abbiamo conosciuto fino all’altro ieri (e fino a stamattina) domani sarà impressionantemente diverso.

La parola da tenere a mente, volendo essere economisti ligi al proprio dovere, è oligopsonista – che è un oligopolista che controlla la filiera del proprio settore. Nel caso del caffè esistono alcuni oligopsonisti globali (il nome più ovvio è il primo torrefattore al mondo: Nestlè) che dimostrano come questi concetti non siano accessori dialettici di un laureando, ma pervicaci realtà di mercato.

In altre parole, la rilevanza della fase di commercializzazione, nelle sue ramificazioni più moderne (il co-marketing a tutto azimuth, il marketing virale, la ridondanza informativa di un marchio che si vede ovunque) unita ad una - per molti più  immediatamente tangibile – massa critica finanziaria ed a collegamenti economici a tutti i livelli con l’ambiente socio-politico globale, rende la concorrenza dei piccoli attori sempre più difficile e residuale.

Vista sotto quest’ottica, l’attività di ricerca di un oligopsonista appare ancora più definitiva, nei suoi risultati di limitazione della concorrenza. Rimanendo – per non dispiacere a nessuno dei colleghi - in un campo estraneo al caffè, se l’Apple iPhone che usiamo con piacere ingloba in sé un centinaio di brevetti, possiamo esser certi che alcune delle apprezzate caratteristiche di questo simpatico telefonino rimaranno per i prossimi vent’anni prerogativa esclusiva della Apple. D’altronde, fate una ricerca Google e digitate iPhone: mi escono 372 milioni di risultati. Con God (Dio in inglese) appena pochi di più: 381 milioni.

 

IL FUTURO?

La certezza, ormai conclamata da autori particolarmente lungimiranti, è che in Italia la sensazione è che si beva un buon caffè, anche se nella realtà spesso non è così. E’ vero che in media la preparazione è superiore a quella che si trova all’estero: per adesso il barista riesce a sopperire a mediocri origini e mediocre qualità con l’esperienza, facendo diventare - almeno all’apparenza – il risultato in tazza un “buon caffè”.

I professionisti del settore sanno che anche quest’ultima affermazione tende a sdrucciolare in certi casi: quelli dove baristi negligenti non regolano le macine al cambiare del tempo, non fanno manutenzione alle macchine, a volte non lavano neppure le coppette – in sostanza: fanno dei caffè tremendamente mediocri.

Lasciamo chiuso il vaso di Pandora di cosa voglia dire per un consumatore un “buon caffè” e partiamo solo dalla constatazione– sempre per divagare dal caffè e non urtare nessuno del nostro settore – che se offriamo un Sassicaia ’98 a chi consuma un vino rosso da tavola da due Euro al litro, tendenzialmente questi preferirà (e giustamente) il Sassicaia. Diamo quindi per scontato che la qualità “paga”. Aggiungiamo poi la constatazione che il mercato mondiale del caffè è in crescita e sta diventando sempre più globale. Sarà un’ovvietà, ma il giorno dopo che è stato chiuso, possiamo vedere su Internet le foto del Coffee Festival di Bangalore 2009, quasi come se ci fossimo andati di persona.

Da questa situazione deriva che, in primis, gli italiani partono avvantaggiati in questa crescita a livello globale giacchè, più a ragione che a torto, sono gli indiscussi esperti del tipo di caffè che ha avuto maggiore crescita negli ultimi vent’anni: l’espresso. In secondo luogo, che questa leadership non sarà – per usare un termine di moda – “sostenibile” a meno che ci si addestri a rimanere i migliori sul campo. E questo, credo, solo con sforzi non campanilistici, ma di gruppo – con attori economici che abbiano interessi veramente convergenti e per i quali “l’unione fa la forza” sia uno slogan sensato, non di facciata. In un mercato globale dove i primi cinque attori vendono oltre due terzi del totale, la frase non deve essere solo di circostanza, se si vuole fare mercato.

Il terreno di combattimento immediato è in questi giorni certamente il mono-porzionato, dove la globalizzazione sta galoppando mentre noi stiamo parlando. Ma non è escluso che anche altri ambiti debbano venire profondamente rivisti, partendo dalla tecnologia per poi finire ineluttabilmente sul mercato. Lo sforzo tecnologico è indispensabile ed è anche relativamente meno costoso fare mercato con la tecnologia (anche se terribilmente costoso, comunque) rispetto a quanto si dimostra necessario investire per prendere e soprattutto mantenere un mercato senza armi tecnologiche.

 

GLI STANDARD, I CONSUMATORE E IL CAFFE’

Gli Standard tecnici (e l’STG ne è uno) non sono già “imperativi assoluti” di natura tecnica, come in alcuni casi si tenderebbe a credere: pensate ad esempio ai prodotti “bio” che consentono l’uso di certi prodotti chimici. Sono in realtà punti di convergenza economica fra gruppi d’interesse. Un buon esempio solo i disciplinari dei DOC o DOCG del vino.

Sia che in questo processo i consumatori svolgano un ruolo attivo ed efficace, sia che venga loro semplicemente proposto sugli scaffali del supermercato uno standard tecnico, quest’ultimo rimane una negoziazione tra attori economici con differenti agende. Il risultato dell’accordo combacia in una disciplina che è una sorta di “media democratica” dei valori in campo.

E’ quindi estremamente interessante notare come Illy Caffè abbia proposto recentemente di inquadrare il caffè espresso nell’ambito delle norme che sovrintendono l’uso della marca STG (Specialità Tradizionale Garantita). E che, dopo la proposta Illy, l’ INEI abbia invece proposto di chiedere la protezione secondo la marca IGP, ovvero l’Indicazione Geografica Protetta.

L’IGP è uno standard più restrittivo dell’STG e, aldilà delle apparenze di una battaglia fra acronomi, dietro alle tre lettere si nasconde una battaglia ben più profonda: cosa possiamo chiamare veramente espresso italiano?

Non saranno gli intenditori ad aver bisogno di STG o IGP per sapere “da che parte tira il vento” in termini di qualità del caffè. Ma, lungi da sopravvalutare la portata della decisione, sappiamo che uno standard di tre lettere alla lunga contribuirà a smazzare le carte: è un gioco complesso, ma la diatriba STG/IGP è uno di quei bivi che la vita impone a volte e bisogna stare attenti – come italiani – a non sbagliar sentiero.

Sia chiaro: la salvaguardia della tipicità dell’espresso italiano (comunque) non può passare da un recinto dove – parafrasando il filosofo Schelling - non esistono apprezzabili differenze e, come di notte, “tutte le vacche sono grigie” (seppur chiaramente marcate e ciascuna brava a vendersi).

Chiamatemi forse un illuso, ma preferirei che quel nome identificasse un qualcosa di veramente italiano. Ma se mai così non potrà essere, allora lasciatemi sperare che voglia identificare il nec plus ultra del caffè espresso – il caffè espresso quintessenziale, come raramente si beve. Che bello, sarebbe: come a quell’incontro dell’ASIC dove durante un intervento un relatore aveva suggerito di smettere di parlare di caffè con differenti gradi di difettosità e proporre una sola ricetta: il caffè zero difetti. E già che ci siamo, essendo esperto d’infusione, vorrei proporre anche questo: nessun difetto, neppure nella preparazione.

 

(Pubblicato sulla rivista del Centro Studi Assaggiatori: "L'assaggio", numero inverno 2009.