Luca D. Majer
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Robert Wyatt da anni non dava più interviste. Incontrai uno degli alabardieri del rock progressivo e del cosiddetto "Canterbury sound" nel settembre dl 1979, a Twickenham, nel sud di Londra, dove viveva.
Un'intervista ancora oggi interessante: Wyatt aveva ancora memorie fresche di quell'ultima dozzina d'anni passati tra Parigi, Londra e fare da support-band a Jimi Hendrix.

 

 
 
 

 

Robert nasce a Bristol e, dopo una breve permanenza a Dulwich, si stabilisce a Canterbury, nel ’56. Quattro anni dopo, a sedici anni, Bob abbandona la scuola di belle arti e si dà da fare come fattorino e lavapiatti, mentre la sera, nello scantinato di casa Wyatt, prova con un complessino di ex-compagni di scuola, I Wildeflowers. Si scimmiotta il R’n’B che allora furoreggiava, nient’altro. E’ ancora casa Wyatt che ospita –pagante- Daevid Allen: è da questi che Robert eredita l’amore per gli allucinogeni, i capelli lunghi, i viaggi. E a Deya, assieme a Daevid, conosce Kevin Ayers: sarà questo trio a formare nel ’66 il primo nucleo dei Soft Machine, in pellegrinaggio a Parigi a frequentare Gregory Corso e Terry Riley (che un imberbe Wyatt vede “loop-izzare” una battuta d’assolo di Chet Baker, ripetendola centinaia di volte). Le influenze vanno dal be-bop ai beatles, attraverso i Temptations e la musica orientale.

Quando, col passare del tempo, I membri originari abbandonano il progetto e i rapporti di forza si coaugulano a favore di Mike Ratledge, Robert è costretto a lasciare il gruppo. Ha intanto già inciso End of an Ear, col quale prende le distanze da quello che allora i Softs stavano esprimendo: non rigidità, ma libertà. Dopo l’esperienza dei Centipede ove conosce quasi tutto l’ambiente jazzistico inglese, forma i Matching Mole, nella completa indifferenza dei critici e del pubblico. Dopo due album, un  fugace scioglimento e la prospettiva di un terzo disco, Bob cade ubriaco dal secondo piano di una casa e perde l’uso delle gambe. E’ Rock Bottom la stupenda reazione alla disgrazia, il “fondo” di un rock ortodosso: un disco che chiunque dovrebbe conoscere; un libro.

Simbolicamente, dopo questa impennata poc’altro: alcune collaborazioni, quindi Ruth Is Stranger Than Richard, a tratti stagnante, a tratti geniale; indicativo. Poi il silenzio di uno degli ultimi grandi folli, rotto da brevi apparizioni.

E’ questa la prima intervista che Robert Wyatt concede nel giro di tre anni. E le sue risposte non a caso appaiono scoordinate; non sono mai precise, sicure, facili. La conversazione dura quasi cinque ore…

 

Cosa mi dici del tanto incensato “Canterbury Movement”?

Guarda, a Canterbury non c’era assolutamente nulla di eccitante: una scuola che era una prigione, le solite cose, il bigottismo di un paese vanitoso, il nazionalismo di una città essenzialmente medio-borghese. Per dirla chiara, odio Canterbury! L’unica cosa che aveva di buono era che prima o poi ti costringeva a lasciarla. Buon per me che ho conosciuto gli Hoppers, Richard Sinclair, Mike Ratledge.

E i Wildeflowers? Erano davvero così mitici come qualcuno ha detto?

 

Al tempo amavo molto la Tamla-Motown, la Stax, quelle cose nere che erano molto di moda allora. Con i Wildeflowers non si tentava che d’imitarli, con risultati peggiori di, ad esempio, Georgie Fame o Zoot Money che, a Londra, suonavano “imitazioni di lusso”. Tra l’impossibilità di fare buona musica d’intrattenimento e l’impossibilità di suonare musica jazz come la suonava Coltrane, capimmo la necessità di tirare fuori qualcosa di nuovo, che potessimo suonare…

 

Da cui i Soft Machine.

Quelli nacquuero più o meno a Parigi e furono essenzialmente un’idea di Kevin e Daevid, visto che nè Mike nè io sapevamo scrivere canzoni. L’idea originale era quella di espandere sempre più lo spazio di improvvisazione, ferma restando la parte armonica pre-composta, e tentando di sperimentare il più possibile sulla forma del suono. Quello che successe in quei continui cambi di personnel però è distorto dalle incisioni discografiche che sono molto poco indicative di quello che stavamo facendo. Mi ricordo, ad esempio, di un trio con Daevid, Hugh Hopper e me a Parigi, letteralmente “intrippato” con musica afghana, con la batteria suonata come un tabla e la chitarra a mo’ di sitar. O ancora lo stesso trio con, in più, Mike Ratledge partito per Cecil Taylor e la free improvisation: esperimenti brevissimi ma molto importanti.

 

Come Soft Machine nel ’67 suonaste anche all’UFO…

 

Normalmente del pubblico la critica parla come di elemento passivo, che subisce quello che gli passa il convento. Alla fine dei Sessanta la cosa era completamente diversa da come veniva descritta dai giornali. Metti la platea dell’UFO: era molto più facile che fosse essa stessa a tirarci per i capelli e a spingerci a sperimentare sempre più. Sotto questo punto di vista i musicisti nella storia del rock sono stati molto più accidentali di quanto non lo siano stati gli spettatori. L’élite non erano i musicisti, ma il pubblico.

 

E nel ’68 andaste negli States, come “spalla” per Jimi Hendrix.

 

Fu Mike Jeffreys, il manager, ad inserirci nel tour e lì, a contatto con Jimi, capimmo che c’era poco da fare i gigioni del rock… Hendrix era incredibile: era capace di iniziare un concerto con free improvisation e feedback assordante: poi, non appena s’accorgeva che il pubblico era vicino allo smarrimento più totale per il fatto di non riconoscere in quel magma di rumore nulla di conosciuto, ecco che iniziava col “gnugnugnee” di Foxy Lady, rassicurando gli spettatori.

Oltre ad aiutarci moralmente e fisicamente, evitandoci di essere schiacciati da un tour massacrante come quello, ci fece capire il rispetto che il musicista rock deve avere del proprio pubblico. Non puoi fregartene delle aspettative della gente che ti è venuta a sentire e devi essere capace di misurare con sapienza questi elementi come il silenzio, la noia, di cui non puoi disporre in grande quantità come, non so, in una performance d’avanguardia.

 

C’erano al tempo relazioni tra “arte seria” e rock?

 

Esisteva una corrente a doppio senso, anche se era più facile che un pittore passasse al rock, per la relativa facilità tecnica che il rock, allora, implicava. Al tempo, comunque, eseguimmo una piéce di Picasso, prendendoci molto sul serio: ora come ora sono più propenso a credere che fra Salvador Dalì e Elvis Presley non corra una grande differenza. Bene o male sono entrambi nello stesso business. Mai credere d’essere gli unici e i migliori…

 

Poi c’è  Third,  che come serietà non scherza affatto.

 

Mike mi parlava giusto poco tempo fa delle cose che non gradisce di Third: ovvero, ad esempio, il rifarsi a dei modelli già collaudati da Miles Davis o Hancock… sinceramente, se mi venisse chiesto di scegliere tra il nostro disco ed i modelli ai quali si ispirava, beh, credo che sceglierei di ascoltare quei dischi di Davis che ascoltavamo allora. Non per questo mancano delle cose belle: ad esempio Facelift è un buon documento di ciò che il gruppo era dal vivo.

Poi in Moon in June ho avuto la prima possibilità di destreggiarmi alle tastiere e con tutti gli altri strumenti: non che fosse una cosa volontaria &-piuttosto, nessuno degli altri era interessato a fare un pastiche di venti minuti con canzoncine dei vecchi Machines, dei Wildeflowers- ma l’esperienza mi è poi tornata utile. Se si toglie il primo solo di organo e il violino nel finale, tutto il resto l’ho suonato io e ciò mi ha evitato la spiacevole situazione di dover chiedere a qualcuno di suonare una cosa che gli stava sinceramente antipatica.

 

Pochissimo dopo incidi  End of an Ear  con tutt’altra gente.

 

End of an Ear era la possibilità di estrarmi dalla rigida compostezza di venti minuti di canzoni pop, di esprimermi liberamente. La CBS vedendo in me il più “canzonettaro” dei Softs mi concesse molto spazio nello studio e così successe che registrai da solo ore e ore di improvvisazione totale, sovraincidendo più voci e tastiere e invitando poi Elton Dean e gli altri a sovraincidere le loro improvvisazioni. David Sinclair suona in Carla, Marsha & Caroline: non è che si trovasse troppo bene alle prese con l’improvvisazone libera…

Indi  Fourth  e la benedizione della benemerita.

La scelta tra essere un onesto e bravo batterista di jazz-rock o imboccare una strada più personale e meno inflazionata in realtà non avvenne; in quel periodo ero abbastanza intrattabile: bevevo molto e più bevevo più diventavo nevrotico. Alla fine fui invitato ad abbandonare il gruppo, anche se Fourth lo suonai, si può dire, con spirito da session-man.

Con i Matching Mole poi torni al gruppo, la “Machine Molle”.

Lì la situazione era ancora più caotica: niente ingaggi, niente soldi, nessuna organizzazione. Si era tornati un po’ agli inizi: tutti meno sicuri ma proprio per questo più vicini l’uno all’altro.  E i due album, con le loro dinamiche molto differenti danno l’idea delle situazioni che si creavano nel gruppo: un primo album più pop ed ordinato, un po’ come Rock Bottom; il secondo disco di strutturata follìa, fin troppo schizoide, come lo voleva Bob Fripp: più vicino a Ruth & Richard.

E lì, in Gloria Gloom, s’incomincia a parlare di politica…

La mia coscienza politica è cresciuta a poco a poco. Già con Hendrix si poteva capire che qualcosa nel mondo puzzava: lo capivi da certi razzismi, da un Hendrix conscio di essere l’ultimo di una lunga tradizione di chitarristi blues neri, ma conscio anche di suonare essenzialmente per una platea bianca, ricca.  Qui in Inghilterra la situazione non è certo migliore, con questo nuovo nazionalismo che si avvicina di più al nazismo del Terzo Reich che al vecchio vittorianesimo…

Non ho il controllo ben che minimo di quello che esce nelle mie composizioni, ma è chiaro che non posso che parlare delle situazioni sociali nelle quali vivo, così come preferisco suonare con musicisti come Mongesi Feza, piuttosto che con prezzolati session-men o che altro. Guarda la storia del rock’n’roll: pronti i libri ad incensare la nascita del rock non appena i bianchi iniziano a suonarlo, mentre i neri già lo suonavano da dieci anni. E nel jazz? “Lo swing è stato inventato da Glenn Miller!”: balle, Duke Ellington esisteva già da dieci anni, e nessuno che a Duke abbia dedicato un film postumo!

Con Rock Bottom arriva addirittura il premio Charles Cros ’74…

Lì molte delle costrizioni subite dal fatto d’essere e un batterista e un cantante sparirono completamente, lungi dall’essere risolte. Lavorare per Rock Bottom fu stupendo: tutte le cose che provavo mi riuscivano subito; per me scrivere musica non è assolutamente facile, ma in quel caso molti problemi si risolvevano da soli. Laurie Allan ha suonato precisamente nella maniera in cui avrei voluto suonare io, se mai avessi continuato a suonare; Gary Windo, Hugh Hopper, Richard Sinclair hanno tutti lavorato magnificamente: se mi fosse data la possibilità di rifarlo non credo cambierei nulla, ed è una cosa che raramente si dice…

Nick (Mason, dei Pink Floyd, n.d.r.) con la sua produzione, poi, ha aiutato a mantenere il suono più compatto con i solo più conglobati con tutto il resto, meno jazzy, più rock.

In Little Red Riding Hood Hits the Road sembreresti pessimista, funereo…

So che qualcuno per Riding Hood mi ha accusato di essere troppo poco pessimista, ma io non amo il pessimismo totale. Quando leggo che un vietcong vissuto per vent’anni in un cuniscolo sotto terra è felice di esserne uscito, capisci che non c’è troppo da auto-compiacersi, dopo tutto appartengo ad una setta privilegiata di una società privilegiata, no? Sugli apporti inconsci a ciò che compongo non so dire nulla: in Rock Bottom l’essere diventato –e non per scelta mia- un cantante a tempo pieno certamente mi ha influenzato, ma non so come.

Tristezza, ironia… certamente queste componenti ci saranno, dopo tutto sono sempre stato triste e scrivere di questa mia situazione è la cosa più sincera che possa fare. L’ironia poi è una componente basilare; se devo pensare a dei maestri della lingua, penso a degli autori comici, non certo drammatici. E in Riding Hood ho voluto pure sdrammatizzare quel sapore neo-wagneriano serioso che certi gruppi di hard-rock progressivo tirano sempre in ballo. Se ho avuto dei problemi con dei musicisti che provenivano come me dall’arte, questi derivavano proprio da questa presuntuosa serietà formale, che non avrei creduto di trovare in un mondo libero come reputavo fosse quello del rock.

In Little Red Robin’ Hood poi di talpe morte, riaccennando in maniera abbastanza “scortese” alla scena rock inglese.

Le talpe sono un’immagine deliziosamente naif di ogni attività sotterranea e sovversiva: sono capaci di spuntare nel bel mezzo di un prato di cemento, bucando ogni “finta natura” e saltando fuori nel bel mezzo della civiltà. In Inghilterra poi la caccia alle talpe è così pestilenziale da essere trasparentemente metaforica: le talpe non servono a nessuno e perciò vanno uccise. Una forma di oppressione come un’altra.

Implicazioni sessuali?

Queste preoccupazioni sono così vitali, cruciali, schiaccianti da non dover essere nemmeno ricordate. Qualsiasi cosa dinanzi al sesso passa in secondo ordine; forse il cibo viene prima, ma quello bene o male non mi ha mai creato grossi problemi.

Da “Ruth Is Strager Than Richard” molti si aspettavano di più.

Povero Ruth & Richard! Se avesse dovuto esserci una successione logica questa avrebbe probabilmente anteposto Ruth & Richard a Rock Bottom: prima una massa di idee informi, poi l’organizzazione completa. Invece non è successo così. Tutti i problemi prima scomparsi con questo disco sono risaltati fuori: registrare l’albo è stata una vera sofferenza: non che manchino spunti interessanti – Muddy Mouse e Solar Flares, soprattutto- ma era l’interesse nel rock che più andava avanti e più si faceva sentire flebile. Ruth era certamente l’ultima cosa che avrei mai potuto fare in quelle condizioni.

E allora, la partecipazione a “Music for Airports”?

Con Eno non è che ci sia un grande coinvolgimento personale. Brian ha a disposizione per giornate intere studi di registrazione e così vi invita amici; questi improvvisano e Eno tagliuzza qua e là una battuta di uno, una battuta di un altro: dopo qualche mese sai che sei sull’ultimo disco di Eno…

Robert Wyatt tornerà mai al pubblico?

Mi sento molto occupato ora come ora: immagazzino conoscenze, dati che fino ad ora non  hanno dato alcun output. Visto che il mio mestiere è di cantare rock, probabilmente –considerato che tra l’altro non ho molti soldi-  prima poi sarò costretto a ritornare alla mia principale occupazione. Ma quando mai lo farò, le motivazioni non potrann certo essere uguali a quelle che mi avevano spint all’inizio.

(da SuperStereo, anno II n.9; marzo 1980)