Luca D. Majer
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"I primi tre capitoli di Matita Emostatica sono da urlo (...) Il miracolo del libro di Majer è questo: la sua diventa una storia tra le storie, che tutte unite fanno la Storia del rock. Tutto si giustifica, tutto si tiene, tutto si legge piacevolmente"
Renzo Stefanel, ExtraMusic Magazine

"Un incipit piuttosto scioccante (...) un'idea di arte che combacia con quella di vita (...) un totale che alla fine è più della somma delle (tante) parti. E un CD allegato davvero prezioso"
Christian Zingales, Blow Up

"Libro avvincente e sorprendente, apparentemente sconclusionato ma lucidissimo, che a volte sembra un romanzo di fantastoria sul rock e a volte sembra un diario personale"
Franco Zanetti, www.rockol.it

"Luca Majer ha la stessa prestanza di chi tira un rigore che può cambiare l'esito di un campionato. Visioni non conformi e che travalicano generi musicali (...) Pagine senza pregiudizi (...) Il tutto scandagliato con un dis/ordine che è solo apparente"
Massimo Pirotta, prefazione a Matita Emostatica

"Uno stile di scrittura dal taglio dadaista (...) Un racconto a tela di ragno sotto LSD"
Mauro Zambellini,
L'Ultimo Buscadero

"Con spettacolare conoscenza della materia, Luca Majer spazia fra sincronicità più o meno rivelatorie, grandi e oscure morti, video di lavatrici che girano su You Tube, squarci di art-rock milanese, con lo strepitoso highlight sociopsicologico della performance di John Cage al Lirico, 34 anni fa. Se è vero che la vera intelligenza sta nella capacità di combinare cose che la mente logica tiene separate, questo è un libro enormemente intelligente"
Franco Bolelli, La Repubblica

 

Copertina e IV

 

Manifesto Lennon/Ono Natale '69

 

Tricky e Pelvis

 

Marsico, "Funk Sumatra"

 

Volantino per John Cage al Lirico, Milano '77

 

Miles elettrico

 

"Hate me. Waste me. Rape me, my friend. I am not the only one"

Kurt Cobain, "Rape Me"

 

Un racconto sulla musica classica, jazz e soprattutto rock. Cinquant'anni di musica, che partono dai Beach Boys del 1961 fino alla Lady Gaga  del 2011. Oltre duecento compositori e canzoni citati in un racconto forse autobiografico e forse da critico musicale, certamente non distaccato. Scritto nell'agosto 2009 e rivisto in marzo 2011. Pubblicato in maggio 2011 dalle edizioni VoloLibero.

Guardate "l'Elogio di Lester Bangs" (in formato Xtranormal) per ritrovare un frammento dal capitolo 10, sull'anno 1980. Oppure guardate i frammenti della performance in presentazione del libro, (registrata al Lo-Fi di Milano, il 14 luglio 2011 - 222° anniversario della presa della Bastiglia). Inoltre: cliccate l'immagine qui sotto per vedere il video promozionale, che include musica tratta da "INELUTTABILE (Modalità dell'udibile)", il CD allegato al libro.

 

 

 

Il frammento che segue è inedito.

Sarebbe dovuto essere il XVI capitolo di questo libro: avrebbe spiegato la fine degli anni Ottanta e gl'inizi dei 1990. Quantomeno cosi' come li ho visti io, a Milano. E pensando forte ad Al Aprile (1960-1991), il co-autore de La Musica Rock-Progressiva Europea e mio compagno di avventure musicali.




CAPITOLO 16: IN A SILENT WAY

Vivere venti o quarant'anni in più è uguale / Difficile è capire ciò che è giusto.

Franco Battiato, Fisiognomica, 1988

 

 

(...)

Il post-’77 e particolarmente i primi 5 anni degli anni Ottanta furono parecchio duri ed obbligarono tutti a rivedere i propri parametri - Al non credo volesse rivedere i suoi. Si trovò così da una parte gli (ex-)creativi che s’erano messi la cravatta, avevano tirato giù di un paio di tacche i giri dei loro motori mentali e a vele ridotte navigavano su un mare che aveva cambiato nome ma rimaneva – almeno per loro – navigabile.
Il migliore esempio era Franco Battiato, col quale Al aveva fatto jam e suonato insieme ai suoi protegées Juri Camisasca e Lino Capra Vaccina. Franco rimaneva un genio musicale, con l’appena pubblicato L’Egitto prima delle sabbie, che spalmava lo stesso accordo in tempi e silenzi diversi sulla tastiera – una musica d’ambienti fatta da chi sapeva di musica. Poi era arrivato Patriots (1980):

Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena/potete stare a galla.
E non è colpa mia se esistono carnefici/se esiste l'imbecillità
se le panchine sono piene di gente che sta male.
Up patriots to arms, engagez-vous
La musica contemporanea mi butta giù


al quale aveva fatto seguito la Voce del padrone, con canzoni come Centro di gravità permanente e Cuccuruccucu Paloma che mischiavano tra le righe Georges Gurdjieff e pop, frammenti sparsi di canzoni degli anni Sessanta e suono rock moderno senza soluzione di continuità. Era un vendersi assai chiaroveggente, senza lontanamente svendersi, anzi facendo proselitismo d’intelligenza.

Dall’altra parte c’erano gli scampoli della creatività autonoma, che tendeva pericolosamente verso l’auto-distruzione, con le favole di Ranxerox imperniate attorno ad un robot iperviolento e la sua tipa tredicenne, Lubna - interpretazioni della congiunzione tra tecnologia ed economia tra le più cupe che si potessero immaginare. Fu quello il periodo in cui l’eroina iniziò a falciare vite nei membri di questo gruppo di romantici e di creativi del Movimento.

Aggiungete - se mai ci fosse da pensare a tesi cospirazioniste o rinnovare l’ammirazione per la legge delle sincronicità – che proprio in questo il periodo s’iniziò a parlare di AIDS – che se negli Stati Uniti era arrivato come una lebbra di fine XX secolo che colpiva gli omosessuali (il film Angels in America di Mike Nichols ne avrebbe mirabilmente dipinto il contesto) in Italia era arrivato come lebbra dei “tossici”, da curare - pur se ampiamente sconosciuto alla medicina – in grande isolamento e bardati stile lazzaretto, salvo poi spandersi prima nel mezzo-mondo della prostituzione, della moda e nel circuito omosessuale e arrivare, in fine ed alla grande, nel mare nostrum dei “buoni padri di famiglia” che non si negavano una sveltina col viado.

Al non si sentiva d’appartenere nè al primo nè al secondo gruppo di reduci musicali del ’77, né certamente era il tipo da viados. Mentre stimava Battiato, del quale aveva sempre scritto bene, non credeva di poter rientrare in quel tipo di ristrutturazione; nè, certamente, si sentiva attratto dal fare nichilista e post-moderno degli scampoli ultrà del Movimento.

Fu per queste violente correnti di riflusso che Al si trovò, a soli venticinque anni, orfano di alcune cose nelle quali aveva creduto (sino in fondo) e catapultato in un mondo col quale aveva ancor meno in comune. L’unico mondo in cui si ritrovava era quello della brillantina che cola sulla fronte sotto la luce degli occhi-di-bue, assorto in un assolo di rifinitura. Elvis era però morto nel ‘77 e quello di Be-Bop-A-Lula in questi anni aveva assunto le sembianze di un mondo d’antàn, un po’ necrofilo. David Lynch lo descriverà in Wild at Heart: postaccio popolato da una fauna d’inquietanti personaggi come il protagonista Sailor (che vive incosciente nel nome del suo giubbino in pelle di serpente e di Elvis) e cattivi senz’anima con l’odore di polvere da sparo al posto del profumo, come il terrificante Bobby Peru.

Forse fu per questa ressa d’asincronie che Al si ammalò. Eppure, nonostante la malattia, Al riuscì faticosamente a dare vita ad alcuni suoi sogni sonori proprio negli ultimi anni della sua vita.

Aveva solo ventott’anni e dovette fare uso di tutta la sua stamina per portare in studio una nuova banda - che aveva chiamato i National Geographix e sintomaticamente aveva pescato nella vicina Lodi, non a Milano. Il nome del gruppo era un jeu de mots, com’era nel suo stile, ma anche qualcosa che aveva a che fare con l’era d’oro del progressive italiano, coi Sensation’s Fix del chitarrista Franco Falsini, del quale Al conosceva Cold Nose.

Durante la registrazione in studio, Al, l’autore di tutti i pezzi, si limitò a dare con signorile sintesi istruzioni sull’arrangiamento dei brani, anche se lasciava molto spago ai suoi fidi musicisti, giovani ma bravi e volenterosi - tra cui la precisa chitarra di Lele Bassi. Il disco uscì bene, nonostante le limitazioni: temi principalmente rock-blues con strane influenze (Peer Gynt?) che affiorano qui e là e testi in inglese. Fisicamente Al era così provato che lo si poteva percepire persino nel suo cantare.

Tra l’altro Al non era portato per le lingue straniere. Soprattutto per l’inglese, ma in genere per le lingue, che indossava come protuberanze non sue. Già stentava a raccapezzarsi nelle parole italiane dei cha-cha-cha della sua collezione di dischi: spicchi vagamente surrealisti di un quotidiano col quale aveva difficoltà a sincronizzarsi. Figurarsi quindi la sua difficoltà nel connettersi con un’altra lingua,: il mondo gli sembrava già sufficientemente marziano anche solo incrociando il micro-mondo tra Porta "Cicca" e Porta Romana. Se decise di esprimersi in inglese, coi National Geographix, era perch&` l’inglese era la lingua dei suoi amati bluesmen e lingua franca del rock. Così, nella fragilità del momento, i testi hanno la precisione del sogno che è di certi racconti di Borges e lungometraggi di Buñuel, e l’imprecisione propria dei dischi in inglese dei progressisti tedeschi da lui tanto amati.

Ma in questo disco una canzone si staccava dal resto. E non aveva nulla a che vedere con le sonorità delle altre canzoni. Fu allora che Al ci regalò una sua In A Silent Way.

In A Silent Way era quel brano che Miles Davis aveva cercato di far passare per suo, anche se l’aveva scritto Joe Zawinul. All’inizio venne arrangiato come una mezza rumba - poi Miles e Teo Macero quella rumba l’avevano stesa e allargata come si fa con la pasta per la pizza, fino a farla diventare - nel disco omonimo, registrato in un’intensissima estate 1969 – una mascolina melodia che si erge da una femminea base armonica leggermente dissonante. Una pappa sonora deliziosa su cui lasciare il giovane McLaughlin sprizzare armonici e suonare con leggere – volute - scordature. Pare che Miles, con quella sua voce strascicata che possedeva per via di vecchi problemi alle corde vocali, gli avesse detto di dimenticare di saper suonare la chitarra e fare come se fosse stato un principiante. Fece così, McLaughlin. Per modo di dire, ovviamente.

Quant’era elettrica rarefatta e maestosa, in mano a Miles, In A Silent Way in 8:30 dei Weather Report divenne profonda e arricchita dai suoni freschi dei sintetizzatori. Poi rispuntò la tromba, questa volta in sordina e tesa, quando ci fornì Mark Isham la sua versione in Miles Remembered.
Un pezzo storico, ovviamente.

Fu per questo che Al decise di chiamare In A Silent Way una canzone che centrava con l’omonimo pezzo di Miles non più di quanto la band centrasse con la rivista di viaggi, a cui peraltro la grafica dei titoli si rifaceva: se il fisico aveva difficoltà a seguirlo, la verve che lo contraddistingueva rimaneva intatta. In più sapeva che quella session era come un sogno – che poteva interrompersi e lui non riuscire più a vederlo realizzato. Non a caso il testo della sua In A Silent Way recita poche parole, di una malinconia infinita:

We are / Just like little sparkIes in the wind of time / And the wind of time calls me sweet
My friend / Sleep with me tonight (…) Don't cry / Please don't cry my friend / All the stars you want / Can be yours today / Just like me

(*) Siamo/Come delle piccole scintille
Nel vento del tempo/Ed il vento del tempo mi chiama dolce
Amica mia/Dormi con me stasera (…)
Non piangere/Per favore non piangere amica mia
Tutte le stelle che vuoi/Possono essere tue stasera/Proprio come me



Al le canta in questa lingua che dovrebbe essere inglese, ma a volte sembra giapponese, a volte un dialetto italiano con l’erre moscia, e infine è nessuna lingua nè voce e rimane giusto purissimo suono. Al suona e canta per chi vuole capirlo, attraverso le leggere stonature: tanto a spalleggiarlo ha tutta la forza del rock, che è arte con l’aggiunta del ritmo. Ma questa canzone è anche puro spirito: esperanto cantato con quarti di tono da raga, e chitarre martellate minimalisticamente e una produzione buona ma povera, perchè all’epoca costava produrre musica e Al non ha mai navigato nell’oro. Era uno dei suoi punti di forza: un tesoro tra le rovine, rosa tra le rose, spina fra le spine - come direbbe un Sufi. Avesse avuto a disposizione i budget delle grandi case discografiche i quattro minuti sarebbero stati tre album – ma non poteva permetterseli. In quei pochi minuti di In A Silent Way non comanda la tecnica bensì la maestosità della vita: Al cantava come qualcuno che sapeva che la stava inesorabilmente perdendo – ma anche come qualcuno che aveva optato per la musica e stava esprimendo la propria anima.

Nella sua In A Silent Way è come se Al s’incaponisse su un frammento di Leon Redbone, come se lo estraesse, distorcesse, riverberasse - fissato per i posteri in uno di quei registratori che si usavano per i loop. Fa come il cineasta viennese Martin Arnold avrebbe poi fatto con frammenti di film hollywoodiani: cristallizza le note, le ripete ad lib, e le rende immortali. Sotto, il groviglio della base ritmica: un basso possente e secco e melodioso, e una batteria composta. Ha solo ventott’anni e gli altri poco più di vent’anni, ma che lezione di vita. E di musica.

Ascoltate le parti strumentali introdotte dal riff alla Fascination Street dei Cure, dopo la prima strofa. I National Geographix vi recitano il rosario della musica progressiva e oltre: ci sono i Polyrock, il minimalismo di Glenn Branca e Rhys Chatham, i Roxy Music dei primi due dischi e Eno che moltiplica il solo di Phil Manzanera in True Wheel, ed i Cure sì, e il paillette-rock e la batteria meccanica dei Kraftwerk, i Simple Minds ma pure i crash-cymbals di Jonathan Kane e il phasing caro a Steve Reich. In due minuti ci sono dentro tutti i Settanta e – sussurrate - anche dosi massiccie della desolazione urbana degli Ottanta, proprio quella a cui Al avrebbe sopravvissuto a fatica.

In A Silent Way è proprio Al dal modo in cui le corde si strappano sotto al riff accattivante, nei fill-ins di batteria, nel cantare un mondo da cui fugge. E’ musica per quelli che (vestiti in smoking bianco, col ciuffo inbrillantinato e le scarpe nere a specchio) inforcano il cappotto e fuori! nella vita notturna del musicista. E’ la colonna sonora di deserte pizzerie, alle tre di mattina, dove andare a mangiare al ritorno dal concerto e dal promoter che ha pagato per tutto il gruppo cinquantamila lire e non capisce cosa vuol dire quando è l’anima che ci metti dentro.

Non aveva sposato gli eccessi d’altri colleghi, nè la fama, Al. Ma pochi ho conosciuto sensibili come lui, che non aveva altro che la musica e la vita da musicista – un genio vissuto in un mondo diverso da quello che poteva apprezzarlo. Penso (e non faccio) i nomi che conoscevamo insieme di quel mondo milanese e che sarebbero finiti in televisione e nelle classifiche – che tristezza deve avere avuto Al nel vivere così giovane la prova che non sono i migliori, nè certamente i più sensibili ad avere successo.

Ci misero una settimana di studio a registrare il disco (fatto tutto dal vivo e quasi sempre con una sola take) e a mixarlo. Poi Al non trovò i soldi per pagare i cinque milioni dello studio. Ed il “prodotto” rimase lì, pronto.

Solo per la determinazione di Lele Bassi e di un gruppo di amici come Gianpaolo Koehler, il grafico del Sigaro d’Italia, che finalmente si pubblicò il disco per l’attiva Bumshiva e la milanese Radio Popolare (per la quale Al aveva curato varie trasmissioni) lo pubblicizzò gratuitamente. Lele, che con Al non aveva nessun debito da saldare, ma lo amava più di molti fratelli il proprio fratello, gli rimase vicino, anche nelle tristi trafile ospedaliere. Fino all’ultima telefonata una sera in cui parlarono di preparare un concerto acustico, forse, un giorno. La mattina dopo fu la zia di Al a chiamarlo. Non fu una bella notizia.

Sarebbe morto due anni dopo quella registrazione, il 4 febbraio 1991 - a 31 anni, di malattia incurabile. Era un puro Al – e decise di uscire di scena silenziosamente, com’era nel suo stile. La sua compagna l’avrebbe seguito pochi anni dopo. Forse aveva cantato per lei quella frase della sua “Via silenziosa”:

Non piangere, tutte le stelle che vuoi / possono essere tue oggi.

Per anni - dopo la sua morte - la sua voce mi ha accompagnato e so che, anche oggi, c’è chi lo sogna ancora e gli parla, vent’anni dopo.
E’ bello sentirlo planare perenne, dall’alto della musica di In A Silent Way. Che fosse un angelo, Al? A Milano?"

 

 


LDM © 2011