Luca D. Majer
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Un saggio (pubblicato su Blow Up, dicembre 2013) su John Mc Laughlin, il " piu' grande musicista vivente " (per seguire la definizione di Ustad Zakir Hussain).

Include un'intervista a JMcL e la recensione del concerto di "Remember Shakti"  a Lucerna del 28 ottobre 2013.

 

John & Shankar, Lucerna (28/10/2013)

 


Dall'intervista:

(...)

LM: Spesso ti definiscono un musicista maestro nel padroneggiare ‘tempi inusuali’, siano essi pari o dispari. Mi fa venire in mente cosa ha detto il compositore d’avanguardia Robert Ashley:

"mi sembra che quando ascolto certa gente fare le cose piu’ interessanti, negli stili musicali piu’ disparati – gente come Michael Jackson – la cosa piu’ importante che lui fa e’ di tentare di spezzare il ritmo. Sta tentando di frantumare la presa di quel tempo simmetrico, senza andare nei 5 e nei 7 che son difficili da mettere insieme. Non puoi stare su un palco per due ore e mezza se tutto va avanti in 4/4. Ti fa uscire di senno »

Qual’e’ l’interesse dei ritmi “complessi”?

JMcL: Di nuovo mi poni una domanda alla quale non posso rispondere in maniera ‘logica’. La mia intera carriera musicale e’ stata volta alla ricerca di differenti tipi di ritmi.  Ne ho accennato brevemente poco prima. La mia esperienza personale mi porta a dire che il ritmo ha un impatto “psico-fisico” su di noi.

Tempi comuni come 4/4 o 3/4, che dominano la musica occidentale, ci sono familiari. Per fortuna la mente indiana ha concepito metriche complesse centinaia di anni fa, e io sono stato influenzato da queste sin da tempi [per me] immemori.

Quello che posso dire e’ che ciascun tempo ha il suo proprio impatto “psico-fisico” e sono tutti bellissimi. In piu’, essi rappresentano delle ulteriori sfide per l’improvvisatore, il quale deve assorbirsi nel ciclo ritmico per potersi liberare dallo stesso.

Potra‘ sembrare contraddittorio, ma devo dire che senza restrizioni nella musica, non ci puo’ essere l’esperienza di liberazione. L’altro aspetto meraviglioso del ritmo e’ che diviene un’esperienza collettiva che parte dal musicista e passa poi all’ascoltatore.

 

LM: C’e’ stato molto parlare di instupidimento mondiale e ho notato che anche tu hai parlato del “mare di mediocrità” che ci circonda, in una recente intervista. Da teenager ho visto “Birds of fire” e “Between Nothingness and Eternity” in cima alle classifiche in Italia. Senza far nomi, chi è in cima oggi al posto di Mahavishnu sembra possedere in media un livello musicale di tre tacche più basso. Qual’è il senso che trovi in tutto questo?

JMcL: Non ne trovo alcuno. Ma daltronde non ne trovo alcuno neppure nei discorsi dei nostri ‘leader’.

Mi sembra chiaro che il mondo degli anni Sessanta e Settanta, nel quale avevamo cosi’ tanta speranza per un mondo migliore, non e’ riuscito, per una qualche ragione, a fare breccia. Comunque, sono successe molte grandi cose, e sono stati fatti grandi progressi.

Un giorno i valori della societa’ cambieranno, ma come Vivekananda ha detto una volta “come puoi chiedere a qualcuno di pensare a Dio quanto ha la pancia vuota?” Ci sono ancora troppe pance vuote nel mondo anche volendo tralasciare le tremende ingiustizie causate dalla maledizione dell’ideologia.

La musica riflette la societa’ umana e quello che dici ha una parte di verita’. Noi siamo allo stesso tempo e-volvendo e de-volvendo e societa’ e musica entrambe riflettono questo fenomeno.

Vediamo di fare sempre quanto meglio si possa !

 

Dalla recensione del concerto:

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Spetta proprio all’Uppalapu, sempre enigmatico e sorridente, inanellare il primo solo veramente conturbante della serata, nel secondo pezzo – l’inedito Bending of the rules composto da Shankar. Il mandolino arabesca l’aria con una serie strepitosa di scale che parlano in crescendo, partendo con seminime che poi diventano semicrome e poi crome e pure biscrome. La locomotiva ritmica formata dal duo Zakir e Vinayakram fa decollare il pezzo, ma Uppalapu aggiunge il Mistero dell’estasi e alla fine del secondo brano non pochi in sala hanno gli occhi umidi e la pelle d’oca. Il concerto, ora, promette bene.

Man mano che procede, mi sento come 37 anni fa al Teatro Lirico di Milano, con Shakti: frastornato. Mi sento Bernadeta Sobiróus a Lourdes e Maria e’ la’ davanti, a rivelarmi cose inaudite. Uno sciame di api d’argento ronza nelle teste del pubblico, grazie a “Guitar Mahavishnu” e a “Mandolin” e agli altri. E lo sciame parla dei Misteri, esprimendoli con strumenti semplici, come quelli che Zakir e Vinayakram suonano.

Shankar non deve neppure portarsi dietro un armamentario di strumenti, perche’ il suo sciame gli scivola dai polmoni. Note glissano vicino alla ghiandola pineale e gli scattano fuori dalla gola; sono frequenze modulate con perfezione - collane di migliaia di note che con le mani dipinge nello spazio, dondolandosi avanti e indietro e chiudendo gli occhi, simile ad un derviscio cherubino dalla pelle ambrata, muezzin di musica immortale. Quale grazia lo possieda non si sa, ma il suo canto e’ delizia pura e tutti, in platea, muovono il capo a ritmo e seguono i suoi frattali sonori, ubriacandosi di musica.

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