Luca D. Majer
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"Uomo di poche parole, [Miles Davis] decise di di protestare contro le ingiustizie e conformismi della vita attraverso la sua arte"
Airto Moreira, 2005

 

Un saggio sulle registrazioni complete del Miles Davis sextet (16-19 dicembre 1970) al Cellar Door club, Washington DC. 

 (Pubblicato come parte della serie RPM, su Blow-Up, settembre 2013)

 

MD - le dita

 

Il rospo EJH

 

Se questa musica non ti strappa via le calze dai piedi quando l’ascolti, vuol dire che sei scalzo
(Keith Jarrett, ricordando “Cellar Door Sessions”)

Sei libera – di far la fame
(George Jackson – lettera a sua madre)

Si distinguono due principali tipi di malattia: quelle che risultano dall’introduzione di un oggetto patogeno e quelle che risultano dalla “perdita dell’anima”. Il trattamento differisce essenzialmente, da un’ipotesi all’altra: nel primo caso si tratta di espellere l’agente del male, nel secondo di trovare e reintegrare l’anima fuggitiva del malato. In quest’ultimo caso lo sciamano s’impone senza nemmeno gareggiare, giacche’ solo lui puo’ vedere e catturare le anime.
(Mircea Eliade, “Le Chamanisme”)

 

 

Riassunto:

Quando: mercoledi’ 16 / sabato 19 dicembre 1970

Dove: Cellar Door club, Georgetown - East Washington D.C., USA.

Chi: Miles Davis Sextet (Miles Davis, Keith Jarrett, Gary Bartz, Michael Henderson, Airto Moreira, Jack De Johnette)

Produzione: quattro serate dal vivo, 12 set in totale

Ospite (solo sabato, II e III set): John McLaughlin

CD: 6, in cofanetto per 350‘ 4” di musica


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Ricco, benestante - con una Ferrari rigorosamente gialla – Miles era l’odiata icona nera di successo. Aveva cervello (nonostante le manganellate) ed in quel dicembre ’70 sarebbe stato chiamato a ribaltare la musica. Era la quarta o quinta volta che lo faceva, nello spazio di venticinque anni. Dopo Cellar Door avrebbe solo composto musica di una violenza inaudita (tra il 1972 e il 1975 – ascoltate Pangaea o i concerti giapponesi per convincervene) per infine abbandonare i palcoscenici, almeno fino al 1980.

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Enigmaticamente pubblicati (quasi integralmente) solo trentacinque anni dopo, i 6 CD dei concerti al Cellar Door club documentano l’Apocalisse Sonora di un Negro e dei suoi cinque Alfieri - ed iniziano con un fade in, come se entrassimo a concerto gia’ iniziato. Ci spiega – chi c’era – come il registratore fosse in un’altra stanza del Cellar Door Club (un posto da 150 persone dove a fatica i musicisti riuscivano a stare sul palco) e che i tecnici non fossero pronti, quando attaccarono le prime note.

La verità è un’altra: è che questo è l’unico modo (incompiuto, di sfuggita, imperfetto) di iniziare a registrar musica che è sempre stata. Non si può coglierla nella sua completezza, per questo motivo quella sera il registratore iniziò in ritardo. Non si coglie mai l’infinito.

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Di questa band ci sono arrivate frasi stizzite di Gary Bartz sul modo di suonare di Jarrett. E pare che Miles, ricevuta in camera caritatis la richiesta da parte del sassofonista di calmare un po’ il buon pianista, sia invece andato da quest’ultimo a dirgli di darci dentro: “Sai, Gary ci terrebbe molto”. Quest’era Miles, dopotutto. Ad ascoltare i risultati si ha la conferma: è la tensione a muovere il mondo.

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Straordinario. A volte Keith racconta storie - come quelle contate dai poeti sufi che ama - per depistare chi non lo segue. Tipo: che odiava gli strumenti elettrici. Occhei, capiamo il fondo del ragionamento. Eppure guardate nei film rimasti del periodo il piacere orgasmico con cui pesta quei tasti. In questi 4 giorni dell’Apocalisse Sonora di roba elettrica ne suona addirittura due. Uno, l’organo Fender Contempo – e checcazzo di tempo: agghiacciante generatore di finti suoni organistici, in mano sua diventa generatore di suoni orgiastici. E due, il piano Fender Rhodes, talora distorto come Jimi l’avrebbe voluto, fosse stato un pianista. Il che crea lenzuola sonore assolutamente diverse da quelle che ci si aspetta da un Rhodes: normalmente e’ pulito e tende al glockenspiel, cosi’ trattato diventa invece una specie di sintetizzatore polifonico ante-litteram.

Grattuggia per orecchie sensibili, il binomio diventa la chiave di volta della timbrica davisiana di quelle serate.

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Di Live/Evil (doppio disco del 1971 che racchiudeva, tagliati e remixati, frammenti del sabato del villaggio Cellar Door) ci interessa la copertina - mirabilmente disegnata da Abdul Matti Klarwein. Grafica psichedelica e, sottostante, il tema della contrapposizione di quei due principi di cui si diceva: Live e il suo contrario Evil sovrintendono alla vita della maggior parte di noi - poi alcuni partono per la “terza via”, ma questo e’ proprio un altro discorso.

Abdul era sfuggito all’olocausto e viveva in Palestina ma era un polacco ebreo che si era fatto ribattezzare con un nome (Abdul) che faceva tanto “odiati musulmani”. In altre parole un “fratello cosmico” che aveva dato vita alle immagini di quella contrapposizione di opposti che animava la musica di Miles di quel periodo. Abdul aveva anche disegnato la magica copertina di Abraxas (Santana - uscito tre mesi prima di Cellar) e quella di Bitches Brew.

Live/Evil aveva quindi una copertina che da una parte era LIVE: vita viva, intesa come una donna africana incinta, baciata sul ventre dall’onda della donna terra – colei che (un tempo) era in armonia con la nostra razza. L’altra parte era la faccia EVIL dove, giustamente, nella grande tradizione simbolica del mondo e seguendo la richiesta esplicita di Miles, troneggiava un rospo. Non un rospo qualunque: un rospo “in drags”, un travestito.

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LDM - 1 - 9 - 13