Luca D. Majer
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Il pezzo uscì in un momento (il 1981) in cui i Clash erano di gran moda. A qualcuno non piacquero certe mie critiche. In retrospettiva, penso che sia inutile criticare ciò che non piace, anche se è proprio ciò che si chiede ad un "critico" musicale.

Ovviamente non si dovrebbe neppure indossare una T-Shirt con scritto Brigate Rosse (anzi "Brigade Rosse") mentre ci si fa pagare dalla Columbia Records, come peraltro facevano i Clash. Ma forse questa è un'altra storia...

 

Tonara, Sardegna

 

Joe Strummer e T-Shirt "Brigade Rosse"

 

 

Un paio di cose belle sul gruppo.

Il nome. Clash, scontro, accordo “dduro”, dissonanza. Ricorda il mito progressivo, richiama alla mente certe “rudezze musicali” d’antàn. Anche se il risultato disattende le aspettative legittime, restìo com’è a concedersi ad ogni lettura cattiva. Un sapore alla Willy Brandt, in barba agli sventolamenti sovversivi, rivoluzionari, brigatistici, tutti gli aggettivi virgolettati. Mai sbilanciarsi. Se si urla “Londra brucia!” e si maledicono gli americani, poi in realtà si intessono trame con l’una e con gli altri, un’intervista in prima pagina del Melody Maker, gente che si fa 700 miglia per vedere i Clash nel Mid-West, potenza dei media. Oppure si cambia genere e stile; e si canta i Clash ultimi, del “rock dell’amante”, della sveltina in macchina.

Poi c’è l’ammirazione per quella capacità di essere in equilibrio, che al gruppo non manca mai. Cosa vuol dire? Si parte da un’idea: utilizzare il veicolo rock, quello d’annata, tre accordi (che strimpellati – da soli- all’inizio facciano venire in mente il ritornelo, siano riconoscibili) e via. E mai sciabordare sui vicini confini che una scelta simile comporta. Ovvero accontentarsi – far accontentare il pubblico- con la ripetizione di un cliché identico in tutti i casi. La canzone, allora, è davvero l’introduzione della chitarra – magari distorta-, la prima strofa e il ritornello urlacchiati, l’a-solo di chitarra, il resto del testo, il finale (con le due possibilità dello sfumato o del tronco).

La musica dei Clash varia impercettibilmente. I tre, quattro accordi sono riproposti magari in altre tonalità, si cambia la scansione ritmica. Ma la formula è la stessa. Sfortunatamente le differenze tra pezzo e pezzo sono giocate male: perchè invece di appiattirle, rendere i dischi di una pasta omogenea, screziata da qualche mutamento minimale (pensate a Polyrock), si tenta di nascondere la peculiarità, si fa finta che il discorso cominci –ad ogni canzone- di nuovo, come se nulla fosse stato. E il risultato ne soffre: rimane la celebrazione – sotto tutto gli aspetti- del rock (come carica, come aggressività, come linguaggio giovanile); ma manca il voler interferire con altri livelli, quali adagiarsi nel pop, da solo, come unica eventualità possibile.

Clash, allora, come appiattimento del dato acquisito: niente è nuovo, nel gruppo; la voce ha le stesse inflessioni che conoscevamo nei sessanta, la chitarra si rifiuta di partecipare a qualsiasi esperimento (il rumore; oppure, anche: il ritmo segmentato), basso e batteria non se la sentono di svincolarsi dal ruolo di base ritmica.

Cambio. C’è un film , in giro da poco. E’ Rude Boy, fantastoria di un folle, trapiantato quadrofenico nella cultura punk. Ci sono, inframmezzati al racconto, tanti spezzoni di scaramuccie e manganellamenti londinesi. E poi ci sono loro, i Clash, che sono gli organizzatori del film verità, che blandiscono i loro pezzi. E che – da trama- riescono a convertire un rude filo-skinhead a quella che Wyatt chiamava la “causa socialista”. L’atmosfera è schizoide. Da una parte il vero, i pigs che manganellano. Dall’altra l’imbastitura hollywoodiana, la trama melodrammatica. Con, ciliegina sul sorbetto, frammenti live dei Clash. E qui sarebbe da iniziare (sentendo quello che la band canta, vedendoli suonare con una maglietta con su scritto B.R., notando la platea cotonata punk, ricordandosi di Rock Against Racism) il discorso sull’immagine pubblica di Strummer e compagni.

Clash come gruppo impegnato, Clash invitati a Torino in piena campagna elettorale “come mossa politica”, Clash come anti-nazi, Clash a favore della causa. E i testi, i titoli: “la guerra civile inglese”, drug stabbing time, “rivolta bianca”, “ho combattuto la legge”. L’immagine Clash, agli inizi, è appaiata a quella dei Sex Pistols, punk per antonomasia. Gusto per lo sberleffo al bigotto establishment. Ma subito lo slancio si stempera nelle impossibilità pratiche. E “stufi degli States” lo si è solo perchè in tournée da mesi, solo perchè la CBS –che tra tutte le mega-etichette è forse la più sterminata- prendendoli sotto contratto vuole anche un rendiconto economico (c’è da stupirsi?) uscite e apparizioni e promozioni. C’è contraddizione, come gli stessi membri ammettono. E può sempre andare bene la dicotomia (d-i-c-o-t-o-m-i-a) musica/testi dagli inizi, conti metropolitani strimpellati su quella vecchia progressione armonica che conoscono tutti.

Clash non può/deve prendere molta attenzione. Utilizza un codice (il mitico Codice Rock), non varia molto gli inputs. Qualcuno mi dice sia musica stupendamente buona per ballare; aggiungo che è ottima per ambientazioni casalinghe: una telefonata, le faccenDe. Nessuno scandalo: i Clash, con il loro impianto monocorde (il loro utilizzare la struttura della classica pop song: caso mai arricchendola di spezie, tipo il tocco reggae), vanno sentiti, non già ascoltati; perchè il loro impegno (frastornato dalle rapide della contraddizione) è pallido e smorto, e invece di chiedere aiuto alla costruzione musicale, ad essa ci si aggrappa, temendo le novità. E il risultato, sulle orecchie, scivola.

Da: Musica 80, Gennaio/Febbraio 1981