Luca D. Majer
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L’intervista è raccolta nei camerini, prima di un concerto al Museum of Fine Arts di San Francisco, agosto 1980. Tuxedomoon diventeranno assai famosi in Europa, ma all’epoca erano a mala pena conosciuti nella Bay Area. (LM – Settembre 2009)

 

 

Il gruppo ha iniziato nel ’77.

Dice Steve Brown- “il mio strumento principale non esiste: dipende più che altro da cosa si ha per le mani al momento, da che giocattolo abbiamo comprato. Adesso uno che ci aveva prestato un clavinet è partito e noi abbiamo costruito tre canzoni col clavinet, giusto perchè era in giro. Ho iniziato con una compagnia teatrale di San Francisco; non ho fatto la trafila di rock bands da scuola media: Tuxedo, in questo senso, è il mio primo gruppo.

Peter Principle: “Io la trafila l’ho fatta: dalla high school in poi mi sono intrippato in ogni gruppo che mi passasse per le mani; poi Tuxedo: ho iniziato come Peter Carginogenic, nella raccolta Ralph

Blaine Reininger: “Ho studiato violino classico, poi assieme a Steve abbiamo messo su Tuxedomoon. E insieme a lui sono l’unico ad essere stato continuativamente nella banda.

Winston Tong: “Io faccio performances, teatro, sono stato anche in Italia, un paio di volte, e il gruppo ha la sua vita autonoma. Qunado loro hanno i soldi per potermi dare qualcosa e io non ho impegni di sorta ci troviamo e suoniamo assieme. L’organico di Tuxedo è molto fluttuante: c’è gente che entra, suona nel gruppo anche per un giorno.

(Rifacendo un attimo il punto: Steve Brown, multistrumentista, e Blaine reininger, multistrumentista pure lui, fondano insieme a Winston –che al tempo è il “più” famoso dei tre- Tuxedomoon. Il quarantacinque che apre le porte del mercato musicale è “Joe Boy… The Electronic Ghost/Pinheads O.I.M.” seguito dall’EP Tuxedomoon, stampato originalmente in nero e poi ristampato da mani ignote –e non autorizzate!- in rosa.)

L’organico si è allargato, soprattutto con l’inserimento di Mike Belfer, chitarrista. Il secondo EP, anch’esso nero, è Scream with a view, come il precedente del ’79. Organico semi-stabile, con l’entrata di Peter – qui Dachert tanto per variare. Winston si fa vedere più tardi, all’uscita di Stranger/Love-No hope a nome Winston Tong with Tuxedomoon. Il gruppo si è consolidato sui tre: Brown, reininger e Principle, accettando l’alea del rapport con l’asiatico Tong. E’ questo il gruppo che fa l’entrata nell’alta società Ralph Records, con I tre pezzettini di Subterranean Modern, e col successivo, definitivo Half Mute.

Rare, del gruppo, le uscite dal vivo. Le ultime sono quelle che la loro etichetta ha programmato nell’estate ’80: una decina di concerti in lungo e in largo per la California, assieme a DNA. Poi, per un mese, i clubs di New York. E l’Europa, in ottbre. Sul palco, comunque, l’approccio è interessante: quello che inizia, nasce come improvvisazione da studio, muta i panni in composizione, passaggi obbligati, con lo strano effetto che dà sentir leggere un  assolo di Coltrane. Gli spazi solistici sono centellinati: si cerca, più di ogni altro il suono d’assieme, una compattezza, proprio perchè forse questa non esiste. E poi si coltivano i timbri, le possibilità di cambiare il suono alla radice, ci si circonda di tanti piccoli e grandi strumenti: Suono Tuxedomoon.

La musica del gruppo cambia spesso perchè la gente chi ci lavora dentro cambia spesso. Le cose di Subterranean erano molto simili allo spirito del chitarrista, ad esempio. Io (Steve Brown) e Blaine restando tutto il tempo nel gruppo vediamo di dare, inconsciamente, un certo indirizzo alla musica, indirizzo che viene poi modulato e trasformato in qualcos’altro da chi è assieme a noi al momento.

Tuxedo è una cosa molto amorfa, non siamo una band ”tipica”: ogni disco ha un line-up diverso e, così pure, la musica slitta di qua e di là, senza ritegno. Ancora: il fatto di avere batterie elettroniche per scandire il tempo deriva solo da alcune coincidenze. In Scream with a View c’era un batterista, e anche in qualche momento di Sub Mod: se c’è lo usiamo. Se non c’è siamo altrettanto felici di usare l’elettronica. E’ un modo di scegliere le cose molto rilassato.

Il rumore è bello se è fatto con cura. Blaine è, del gruppo, quello che ama il bello, le strimpellate romantiche. A Steve piacciono più cose drammatiche, appassionate e soprattutto il mood, i pezzi d’atmosfera. Su quested direzioni di massima, poi, nasce la ricerca per questo o quello strumento: questo rumore o quel suono possono essere fatti in milioni di modi; scegliere quale è importante quanto la scelta di cosa produrre. Scelte razionali non ne esistono a priori, è veo però che su Half Mute non avremmo messo nel bel mezzo dell’assolo di violino una interferenza CB o qualcos’altro, non siamo molto per i collage. Ma era anche l’atmosfera classicheggiamnte che aleggiava nel disco a farci rifiutare alcune possibili soluzioni e farci scegliere dei suoni convenzionali, degli accoppiamenti molto tradizionali. E la nostra versione di I Left My Heart in San Francisco, viceversa, incorpora tutti quei suoni preregistrati, street noise, chiamate telefoniche. Va a momenti, suppongo.” 

Nei concerti abbiamo delle canzoni, un repertorio che proviamo e riproduciamo. Improvvisazione non ce n’è tanta, anzi, ci sono alcuni pezzi dove dalla prima nota all’ultima è una ripetizione pedissequa dello spartito o di quello che si è suonato alle prove. Si può dire, in un certo senso, che l’improvvisare giova molta di più al gruppo all’inizio della vita di una canzone che nella sua maturità. Suonavamo spesso, l’anno scorso, dal vivo, sempre intorno alla zona  di San Francisco.

Qui abbiamo un seguito discreto, anzi direi buono, c’è molta gente interessata a questi tipi di sperimentazione. Poi c’è New York, abbiamo suonato un paio di volte, sembra che sia piaciuto, là al Mudd Club, al Ritz. Poi abbiamo suonato a Minneapolis. Ma fuori dalla California è tutto. Non è molto. Il problema è anche dei media: un giornale come Rolling Stone, che è l’unico a distribuzione nazionale, è conservatore, difficilmente s’interessa a qualcosa di fresco e nuovo. Le fanzines, i vari Damage, Slash, sono circscritti alle aree dove sono nate, servono  a pubblicizzarci ma neanche poi tanto. Le radio, a pescare quelle giuste, possono fare molto: sappiamo ad esempio di una, a Chicago, che ha trasmesso Half Mute per un mese, il che non è male”.

Il mio (di Peter Principle) interesse per il gruppo, e il loro per me, si è sviluppato dal mio interesse per i suoni registrati, derivanti non propriamente da strumenti musicali. Molta gente, in effetti, non riusciva a trvare nulla di musicale in quello che facevo; il che derivava, pensandoci bene, al modo in cui erano stati avvicinati al materiale musicale. Quello che con Tuxedomoon succede è che letteralmente il gruppo avvicina il pubblico con uno spirito che tenta essere il più possibile vicino al loro, pur mantenendo una sorta d’integrità artistica. E’ una lotta, quasi: sentre quello che si sente in termini che possono essere decodificati da chi ascolta, cioè che l’ascoltatore sia portato a relazionarsi al materiale sonoro.

Fare così ci interessa per due ordini di motivi: provare che ciò può essere fatto; confermare che la gente è pronta ad un’esperienza del genere. Qualcuno deve farlo. L’output di Tuxedo è una cosa molto diversa da quello che salterebbe fuori se ciascuno di noi si mettesse a fare cose da solo. E’ strano. Il fatto che tre persone (Steve, Blaine, Peter) si trovino assieme per puro caso, per possibilità irrazionale, e rimangano insieme, continuando ad interagire tra loro nelle scelte musicali ed extra musicali, comporta anche che alcuni lati delle tre personalità si neutralizzino a vicenda, si cancellino per polarità opposte e uguali. Altre idee si integrano, si mischiano e quello che esce è quello che esce. Esiste poi un’incombente pressione: il fatto di essere un gruppo. Che vuol dire: sapere di avere un seguito, di pubblicare dischi che la gente ascolta, di suonare davanti ad un pubblico. E inconsciamente la cosa scava, rode. E ti spinge, senza che tu possa saperlo –salvo opporsi, razionalizzando- a scrivere una canzone come Desire, che sai può piacere ma che non hai scritto intenzionalmente con quelo. Piacerà a quelli a cui noi piacciamo”.

E, ancora, c’è un altro filtro, questo forse più presente a livello conscio, ma che funziona in maniera quasi automatica: quello di eliminare gli estremi. Evitiamo, come gruppo, di accogliere quello che noi, come singoli, proponiamo o che sia o eccessivamente rude o disturbante – Blaine vi si opporrebbe- o eccessivamente pop o insulso – Peter non riuscirebbe a suonarlo. Come in gruppo, a posteriori, esiste una tacita premessa sulla quale lavrare: si gettano le cose troppo anticonvenzionali, e si rifiutano quelle eccessivamente convenzionali. Tra i due estremi operiamo una sorta di sintesi: è li che lavoriamo. La dinamica di accettazione-rifiuto è generata econtenuta nelle pareti del gruppo: non ci sono problemi con l’etichetta o con qualsiasi esterno, solo tra noi tre. Se ci piace una cosa, la facciamo; consciamente non ci interessa la Ralph, il pubblico, la mamma, la facciamo e basta. Inconsciamente, poi, chi lo sa…”

“Progetti futuri: New York, appena finisce la tournée in California; poi l’Europa, possibilmente l’Italia. Poi indietro a San Francisco, nel caso in cui non si riesca a registrare il nuovo disco in Inghilterra. Dopotutto ci piace la zona della Baia: anche il pubblico, volendo, è molto più vitale di quello che succede a Los Angeles. Non c’è da illudersi, comunque, la proporzione, la percentuale di persone interessate – magari – sarà la stessa di altrove negli Stati Uniti, quello che fa aumentare il numero di pubblico è l’agglomerazione urbana, l’avere tanta gente tutta assieme, un po’ come succede in più larga scala a New York.

Reed, niente jazz; Joy Division, mmmh, ci piacciono molto, l’album è notevole. Poi il soul, la roba funky. E tutto il resto. Magari Can e King Crimson, quelli della Motown, gruppi da singoli

Tra i gruppi di  San Francisco ovviamente i Ralph. Abiamo sunato con Snakefinger, siamo amici dei Mutants, qualche band sparsa, ma niente di rilevante. La stessa attività di scambio tra un gruppo e un altro non così frequente, comunque. Ci conosciamo, ci si vede ogni tanto, ma niente “movimenti”, particolari canalizzazioni della cosa.

Tuxedomoon ha la lingua lunga. Parlano tranquillamente dei loro meccanismi i tre Brown, Principle e Reininger, delle modalità d’utilizzo dei loro mezzi di produzione. E quello che ci arriva, con i dischi o i concerti, è semplice constatazione. Un equilibrio misurato, la compressione centripeta che li fa sforzare di evitare quello squillo eccessivo, quella nota troppo melodiosa. Una musica che tenderebbe a confermare – spesso- la California come stato più europeo della Confederazione (e Joy Division e King Crimson non sono citati e riportati a caso). Ma poi una forma mentis americana, questo approccio para-inconscio con la risposta del pubblico, questo voler conversare e non voler cedere alle insinuazioni del commercio.

E la perfezione del quadretto, di ogni quadretto; e del progetto tutto, la serietà quasi aliena al gruppo non riesce lo stesso ad impadronirsi delle leve del potere, a fare uscire un Half Mute praticamente perfetto. E la strumentazione, che cambia di giorno in giorno, trasmette, tace, muorequella che in pratica “fa tutto”, come dice Steve Brown, detentrici di suoni, ritmi, immagini. Esiste schizofrenia ed è il contrapporre tre, quattro, cinque mentalità diverse (“chi ci càpita a tiro e ci piace come suona”), ad un totale conglobante, un’enorme ameba che inghiotte ogni personalità, la rimodella con dei codici per lo più sconosciuti agli stessi fondatori del gruppo e la fa fuoriuscire – indivisibile dalle altre- in un qualcosa di completo. La lezione, volendo, è questa: titoli di canzoni, esempi pratici seguono a iosa; unico concetto uniformatore (non è il battere rock, non è il fischiare del saxofono, non è il basso calmo e tranquillo) resta, ancora, l’immobilità della superficie dei dischi Tuxedomoon, questa abilità del rendere compatto il più aereo frammento, la canzone più banale (Joe Boy?). Immobilità contrapposta a tutto: cambi di persone, di strumentazone, di pubblico, di etichetta; il mare tempestoso degli abissi. Come nella migliore tradizione.

Da: Musica 80 - ottobre 1980